Istat: “Speranza di vita 2022 in crescita per gli uomini (80,5 anni) ma stabile per le donne (84,8 anni)”. Allarme cambiamenti climatici: “Ormai è certo che influiscano sulla mortalità”
7 aprile - Lo rileva l’Istat in un nuovo rapporto demografico relativo al 2022 che ribadisce i dati generali sull’andamento della popolazione già anticipata nella nota dello scorso 20 marzo aggiungendo però alcuni approfondimenti sulla speranza di vita alla nascita e sulla mortalità. Il numero più alto dei decessi si è avuto in concomitanza dei mesi più rigidi, gennaio e dicembre, e nei mesi più caldi, luglio e agosto. IL RAPPORTO
La speranza di vita alla nascita nel 2022 è stimata in 80,5 anni per gli uomini e in 84,8 anni per le donne, solo per i primi si evidenzia, rispetto al 2021, un recupero quantificabile in circa 2 mesi e mezzo di vita in più. Per le donne, invece, il valore della speranza di vita alla nascita rimane invariato rispetto all’anno precedente.
E poi attenzione ai cambiamenti climatici che stanno assumendo rilevanza crescente anche sul piano della sopravvivenza, nel contesto di un Paese a forte invecchiamento.
Lo rileva l’Istat in un nuovo rapporto demografico relativo al 2022 che ribadisce i dati generali sull’andamento della popolazione già anticipata nella nota dello scorso 20 marzo aggiungendo però alcuni approfondimenti sulla speranza di vita alla nascita e sulla mortalità.
Speranza di vita in crescita per gli uomini ma stabile per le donne
I livelli di sopravvivenza del 2022, sottolinea Istat, risultano ancora sotto quelli del periodo pre-pandemico, registrando valori di 6 mesi inferiori nei confronti del 2019, sia tra gli uomini che tra le donne.
Sebbene il rallentamento della speranza di vita delle donne rispetto agli uomini costituisca un processo ravvisabile già in anni precedenti la pandemia, quest’ultima può aver acuito il trend.
L’impatto della crisi sul sistema sanitario, e la conseguente difficoltà nella programmazione di visite e controlli medici, osserva ancora Istat, potrebbero esser state particolarmente forti per le donne, più inclini degli uomini a fare prevenzione.
E in proposito Istat ricorda che dai dati dell’indagine “Aspetti della vita quotidiana” risulta che tra il 2019 e il 2021 la percentuale di donne che ha dichiarato di aver rinunciato a prestazioni sanitarie sia aumentata di 5 punti percentuali (dal 7,5% al 12,7%), per gli uomini tale aumento è stato invece di 4 punti percentuali (dal 5% al 9,2%).
Nel Nord la speranza di vita alla nascita è di 80,9 anni per gli uomini e di 85,2 per le donne; i primi recuperano circa un mese rispetto all’anno precedente al contrario delle donne che invece lo perdono.
Il Trentino-Alto Adige è ancora la regione con la speranza di vita più alta sia tra gli uomini sia tra le donne, il Friuli-Venezia Giulia è invece la regione che ha registrato il maggior guadagno rispetto all’anno precedente, circa sei mesi per entrambi i sessi.
Il Centro è l’unica area per cui si registrano incrementi di sopravvivenza in tutte le regioni, anche se lievi, rispetto al 2021: per gli uomini l’incremento è dello 0,2, mentre per le donne dello 0,1. La speranza di vita più alta tra gli uomini si annota in Toscana (81,3), per le donne nelle Marche (85,4).
Anche il Mezzogiorno nel complesso fa registrare gli stessi incrementi del Centro, ma al suo interno ha una situazione più eterogenea. Si passa da regioni come Molise (solo per gli uomini) e Puglia, dove i guadagni rispetto all’anno precedente sono intorno ai 6 mesi di vita, alla Sardegna, dove la forte mortalità ha fatto sì che si sia perso circa mezzo anno di vita per entrambi i sessi.
Quest’ultima è la regione dove la quota di rinunce a prestazioni sanitarie è più elevata (nel 2021 era pari al 18,3% contro il dato nazionale dell’11%).
La Campania, con valori della speranza di vita di 78,8 anni per gli uomini e di 83,1 per le donne, resta la regione dove si vive meno a lungo.
La spiegazione di fondo, in conclusione, scrive Istat nel suo rapporto “è che le variazioni congiunturali della speranza di vita che si stanno rilevando nell’ultimo triennio siano ancora fortemente correlate a quella che è stata l’evoluzione della pandemia dal 2020 in poi. I parziali recuperi di quanto perso nel periodo più critico (che è stato diverso da regione a regione) sono dipesi sia dall’efficienza del sistema sanitario, pesantemente sottoposto a pressione, sia dalla preoccupazione che psicologicamente può aver indotto le persone (soprattutto se donne e se fragili) ad avvalersi meno che in passato dei servizi medico-sanitari”.
Picco dei decessi nei mesi più caldi e freddi
Nel 2022, come già riportato nel precedente report del 20 marzo, Istat indica 713mila decessi avvenuti in Italia, con un tasso di mortalità pari al 12,1‰. Rispetto all’anno precedente il numero dei morti è superiore di 12mila unità, ma inferiore di 27mila rispetto al 2020, anno di massima mortalità per via della pandemia. L’Istat osserva che il numero più alto dei decessi si è avuto in concomitanza dei mesi più rigidi, gennaio e dicembre, e nei mesi più caldi, luglio e agosto.
In questi soli quattro mesi si sono osservati 265mila decessi, quasi il 40% del totale, dovuti soprattutto alle condizioni climatiche avverse che hanno penalizzato nella maggior parte dei casi la popolazione più anziana e fragile, composta principalmente da donne.
Oltre 606mila deceduti, l’85% del totale, hanno un’età maggiore o pari ai 70 anni, percentuale che nelle donne aumenta fino all’89,2% mentre per gli uomini si ferma all’80,3%.
Analizzando i quattro mesi con le condizioni climatiche più avverse, queste percentuali aumentano all’80,7% per gli uomini e quasi al 90% per le donne, proprio a sottolineare come questa mortalità più elevata abbia coinvolto soprattutto la popolazione più anziana.
Situazioni analoghe, osserva ancora Istat, si erano già verificate in passato, quando l’eccesso di mortalità rispetto all’anno precedente era dovuto all’elevato numero di decessi dei mesi estivi e invernali.
Negli anni 2003, 2015 e 2017, ad esempio, si erano registrati degli incrementi dei decessi rispetto all’anno precedente rispettivamente del 5,2%, 8,2% e 5,5% e anche in questi anni la quota per i mesi di gennaio, luglio, agosto e dicembre era risultata significativa, portandosi sopra il 35%.
Se si esclude il 2020, contraddistinto dall’impatto pandemico, Istat fa notare come sia opportuno rilevare che delle quattro annualità sin qui riconosciute come caratterizzate da livelli di mortalità superiori all’atteso ben tre (2015, 2017, 2022) siano concentrate nell’arco di soli otto anni, mentre una soltanto (2003) risalga a venti anni fa.
“Un segnale, apparentemente inequivocabile – scrive Istat nel rapporto - di quanto i cambiamenti climatici stiano assumendo rilevanza crescente anche sul piano della sopravvivenza, nel contesto di un Paese a forte invecchiamento”.
Il 47% dei decessi si registra nel Nord, con un valore pari a 333mila. Al Centro i decessi sono 144mila (20%) e nel Mezzogiorno 237mila (33%).
È però il Centro la ripartizione con il tasso di mortalità più elevato (12,3‰), segue il Nord (12,2‰).
Il Mezzogiorno, invece, con un tasso dell’11,9‰, registra una mortalità al di sotto della media nazionale, motivata dal fatto di presentare una struttura della popolazione relativamente meno invecchiata e pertanto meno soggetta ai fattori di rischio.
A livello regionale la Liguria (15,9‰) e il Molise (14,7‰) sono le regioni con il tasso di mortalità più alto, mentre il Trentino-Alto Adige (9,9‰) e la Campania (10,9‰) quelle con il tasso più basso. Le prime sono, infatti, quelle con una struttura della popolazione più anziana, le ultime invece quelle con la struttura più giovane del Paese.