Antibiotici. La minaccia dei superbatteri, prima causa di morte entro il 2050, ma in Italia +6,4% consumo in un anno
22 novembre - Per correggere il tiro l’ECDC nel suo ultimo rapporto fissa degli obiettivi anche per l’Italia da conseguire da qui al 2030: primo, riduzione del 18% del consumo di antibiotici a uso umano e portare almeno al 65% del consumo totale di antibiotici del gruppo “Access”, ossia le 25 confezioni a uso più comune che dovrebbero essere sempre disponibili e a un prezzo accessibile e che oggi in Italia rappresentano ancora il 50,8% del totale. Italia maglia nera in Europa per i decessi.
È ormai l’allarme del secolo: i batteri resistenti ai farmaci sono destinati a diventare, entro il 2050, la prima causa di morte in Italia, superando persino i tumori. Nel nostro Paese infatti è in continuo aumento il consumo di antibiotici che favoriscono il proliferare di microrganismi che non rispondono alle cure. E se in Europa si verificano ogni anno più di 670.000 infezioni da germi antibiotico-resistenti, essi causano oltre 35 mila decessi, di cui quasi un terzo in Italia, che risulta così essere il primo Paese a livello europeo. Ci si ammala di più e si spende in misura sempre maggiore, perché i super batteri sono responsabili di un significativo assorbimento di risorse (sanitarie e non) che ammontano a circa 1,5 miliardi di euro l’anno.
Questi il quadro della situazione contenuto in un report sugli antibiotici dell’Agenzia italiana del farmaco.
In base al rapporto dell’Ecdc europeo i morti causati nel nostro Paese da infezioni ospedaliere resistenti agli antimicrobici sarebbero dunque circa 12mila, un terzo di tutti i decessi che si verificano in ospedale. Nel biennio 2022-23 sono infatti 430mila i ricoverati che hanno contratto una infezione durante la degenza, l’8,2% del totale dei pazienti contro una media Ue del 6,5%. Peggio di noi con l’8,9% fa solo il Portogallo, che però ha una popolazione più giovane della nostra e quindi meno suscettibile. Ma siamo in fondo alla classifica anche per l’uso di antibiotici, somministrati al 44,7% dei degenti contro una media europea del 33,7%. E così il cane si morde la coda, perché l’uso così massiccio di antimicrobici fa nascere superbatteri resistenti agli stessi farmaci.
Tra i microbi più diffusi troviamo la Klebsiella, che infetta le vie urinarie con una mortalità che arriva alla metà dei casi, lo Pseudomonas che provoca infezioni osteoarticolari con mortalità al 70%, l’escherichia coli, che genera diarrea anche sanguinolenta, il clostridium difficile, che prolifera nell’intestino con una mortalità a 30 giorni che si avvicina al 30%. Nonostante le campagne di sensibilizzazione l’uso degli antibiotici da noi è in aumento, con il 35,5% dei pazienti, non solo ricoverati, che ne ha ricevuto almeno uno negli ultimi due anni, contro il 32,9% del periodo 2016-17.
La situazione poi, come sempre quando si parla di sanità, varia da regione a regione. Come documenta un’altra indagine dell’ISS, dopo un intervento chirurgico si va dal record delle 500 infezioni ogni 15mila dimessi contratte nella piccola Valle d’Aosta alle sole 70 dell’Abruzzo, passando per le 454 della Liguria e dell’Emilia-Romagna, le 300 della Lombardia, le 211 del Lazio. Fatto sta, documenta il rapporto dell’Ecdc, che l’impatto sul nostro SSN è enorme, con 2,7 milioni di posti letto occupati proprio a causa di queste infezioni, con un costo che arriva a 2,4 miliardi di euro l’anno. Certo, i microbi in ospedale non è possibile azzerarli, perché parliamo di un ambiente chiuso dove vivono a stretto contatto pazienti che virus e batteri se li portano anche da fuori.
Ma secondo la Simit, la Società malattie infettive e tropicali, “l’impatto di queste infezioni potrebbe essere ridotto di un buon 30% inaugurando un percorso virtuoso”. Un obiettivo che per essere centrato richiederebbe non solo una maggiore appropriatezza prescrittiva, tanto in ambito umano che veterinario, ma anche un rinnovamento dei nostri ospedali, spesso datati come lo sono i loro impianti di riscaldamento e aria condizionata, veicolo di diffusione dei microbi. Per questo sono stati riservati 1,2 miliardi del piano di investimenti nell’edilizia sanitaria da destinare all’ammodernamento degli ospedali.
Per correggere il tiro l’Ecdc nel suo ultimo rapporto fissa degli obiettivi anche per l’Italia da conseguire da qui al 2030: riduzione del 18% del consumo di antibiotici a uso umano; portare almeno al 65% del consumo totale di antibiotici del gruppo “Access”, ossia le 25 confezioni a uso più comune che dovrebbero essere sempre disponibili e a un prezzo accessibile e che oggi in Italia rappresentano ancora il 50,8% del totale; ridurre del 18% l’incidenza totale delle infezioni da stafilococco aureo resistente alla meticillina che nel 2023 l’Italia ha già ridotto del 24,1% rispetto al 2018; ridurre del 12% l’incidenza totale delle infezioni del flusso sanguigno da escherichia coli resistenti alle cefalosporine di terza generazione, ridotta in Italia del 14,8% negli ultimi 4 anni; ridurre del 5% l’incidenza totale di infezioni sanguigne come quelle da Klebsiella resistenti alla classe di antibiotici dei Carbapenemi, che invece in Italia sono aumentate del 10,2% nel 2023 rispetto al 2019.
“Dopo le riduzioni temporanee dell’AMR totale nel 2020 e nel 2021, i primi anni della pandemia COVID-19 – si legge nel rapporto di sorveglianza dell’Ecdc del 18 novembre 2024 – i tassi sono tornati leggermente al di sopra del livello di base del 2019. Non è stato possibile rilevare alcuna tendenza alla diminuzione tra il 2019 e il 2023, né a livello generale dell’UE né per ogni singolo Stato membro dell’UE. Gli scarsi progressi verso l’obiettivo dell’UE sull’AMR totale significano che la necessità iniziale, ipotizzando una tendenza lineare alla riduzione, di una riduzione media annua di 0,36 DDD per 1000 abitanti al giorno in 11 anni è ora aumentata a 0,59 in sette anni”.
“Inoltre - viene rimarcato - si sono registrati progressi limitati verso il secondo obiettivo dell’UE, quello per il quale almeno il 65% del totale dei farmaci AMR sia costituito da antibiotici del gruppo ‘Access’, mentre non si è registrato un aumento del numero di Stati membri dell’UE che hanno raggiunto questo obiettivo dal 2019”. Da qui l’invito agli Stati ad adottare programmi antimicrobici di “stewardship”, ossia mirati ad un uso ottimale degli antibiotici per scelta del farmaco, dosaggio, via e tempi di somministrazione.
Ma molto c’è ancora da fare anche nella prevenzione delle infezioni in ambito ospedaliero, perché non pochi casi sono dovuti alle infezioni alle vie urinarie, magari perché la pulizia dei cateteri lascia a desiderare, così come la cura delle ferite chirurgiche. Ma a volte a veicolare i microbi sono i mal tenuti sistemi di areazione dei nostri nosocomi, che hanno oramai un’età media di settant’anni. A incidere è anche il modo con cui si sanificano gli ambienti ospedalieri.
“L’efficacia di alcol e candeggina solitamente utilizzati nei nostri nosocomi dura generalmente appena un’ora, mentre ci sono nuovi detergenti probiotici, come il PCHS, che restano attivi per almeno 24 ore, rilasciando ‘batteri buoni’ in grado di sostituirsi a quelli cattivi che generano le infezioni”, è la conclusione di uno studio condotto dall’Istituto di microbiologa dell’Università di Ferrara. Fatto è che circa un’infezione su tre si sarebbe potuta evitare con un po’ più di pulizia e di prevenzione. Che significa tra le 135 e le 210 mila infezioni frutto in qualche modo di mancati accorgimenti igienici che possono avere a volte conseguenze letali, visto che mediamente l’1% di questi casi evitabili causa un decesso. Come dire che duemila pazienti ogni anno muoiono per infezioni evitabili.
Al di là della prevenzione in ambito ospedaliero molto c’è ancora da lavorare nell’ambito dell’appropriatezza prescrittiva. Perché, se la diffusione dei batteri resistenti agli antimicrobici è indicata dall’Oms come una delle grandi emergenze sanitarie che nel 2050 potrebbe provocare oltre 39 milioni di morti nel mondo, in Italia, già maglia nera in rapporto ai decessi, desta preoccupazione la ripresa, a partire dal 2022, del consumo di antibiotici nel nostro Paese, aumentato del 6,4% nel 2023 rispetto all’anno precedente. Lo scorso anno quasi 4 persone su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotico, con livelli più elevati al Sud, dove il 44,8% della popolazione ne ha assunto almeno uno in corso d’anno, contro il 30,9% del Nord e il 39,9% del Sud. Differenze che fanno riflettere anche sull’ appropriatezza delle prescrizioni e dei consumi. In lieve costante crescita, oramai da 10 anni, il consumo degli antibatterici a prevalente uso ospedaliero. “Considerando che alcuni di questi antibiotici sono usati nel trattamento delle infezioni causate da microrganismi multi-drug resistant, tali dati - si legge nel Rapporto - suggeriscono la necessità di migliorare la sorveglianza delle infezioni nosocomiali nelle strutture sanitarie, garantendo una risposta tempestiva e adeguata alle infezioni. Emerge, pertanto, la necessità di implementare programmi di "Antimicrobial Stewardship" in particolar modo nelle popolazioni ad alta prevalenza d’uso per ottimizzarne il consumo e ridurre la resistenza antimicrobica”.
Entrando più nel dettaglio la prevalenza nell’uso di antibiotici aumenta con l’avanzare dell’età, raggiungendo il 60% negli over 85. Nella popolazione pediatrica i maggiori consumi si concentrano nella fascia di età compresa tra 2 e 5 anni, in cui circa 4 bambini su 10 hanno ricevuto nell’anno almeno una prescrizione di antibiotici. Il 76% delle dosi utilizzate è stato erogato dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Quasi il 90% degli antibiotici rimborsati dal SSN viene erogato sul territorio (in regime di assistenza convenzionata). Più di un quarto dei consumi a livello territoriale (26,3%) corrisponde ad acquisti privati di antibiotici rimborsabili dal SSN (classe A). Le penicilline in associazione agli inibitori delle beta-lattamasi si confermano la classe a maggior consumo (36% dei consumi totali), seguita dai macrolidi e dai fluorochinoloni. Permane un’ampia variabilità regionale nei consumi a carico del SSN, che sono maggiori al Sud rispetto al Nord e al Centro. Nelle regioni del Nord si registrano inoltre le riduzioni maggiori (-6,1%), mentre al Sud sono più contenute (-2,2%). Nelle Regioni del Sud si riscontra una predilezione per l’utilizzo di antibiotici di seconda scelta. Complessivamente i consumi in Italia si mantengono superiori a quelli di molti Paesi europei. L’Italia si conferma uno dei Paesi europei con il maggior ricorso a molecole ad ampio spettro, a maggior impatto sulle resistenze antibiotiche e pertanto considerate di seconda linea, con un trend in peggioramento negli ultimi due anni. L’Italia è anche uno dei Paesi con la minor quota di consumo degli antibiotici del gruppo “Access” (47%), considerati antibiotici di prima scelta, che secondo la WHO dovrebbero costituire almeno il 60% dei consumi totali. In ambito ospedaliero si osserva in particolare un incremento del ricorso all’utilizzo di antibiotici indicati per la terapia di infezioni causate da microrganismi multi-resistenti. Sia i consumi in regime di assistenza convenzionata sia gli acquisti da parte delle strutture sanitarie pubbliche sono aumentati nel primo semestre 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
“La situazione italiana - afferma il Presidente di AIFA, Robert Nisticò - è critica sia per la diffusione dell’antibiotico-resistenza sia per il consumo degli antibiotici, rendendo pertanto urgenti le azioni di prevenzione e controllo. Il trend è infatti di nuovo in crescita e così il consumo continua a essere sempre più superiore alla media europea, sia nel settore umano che veterinario, con una grande variabilità tra le regioni e con un ritorno nel 2022 ai valori registrati durante il periodo pre-pandemico. Nelle mappe europee relative alla distribuzione dei batteri resistenti in Europa, l’Italia detiene, insieme alla Grecia, il primato per diffusione di germi resistenti. L’epidemia silente delle infezioni batterico-resistenti -prosegue- dipende da una molteplicità di fattori, non ultimo le difficoltà per l’industria ad investire ingenti risorse nella ricerca di nuovi antibiotici nella prospettiva di un loro uso più limitato nel tempo. Per questo occorre individuare strategie push and pull, spingendo la ricerca di base ma puntando anche su incentivi in campo regolatorio che consentano da un lato di semplificare, dall’altro di velocizzare i tempi di approvazione di nuovi antimicrobici in gradi di aggirare le resistenze batteriche. In questo senso un modello può essere quello della legge sugli orphan drug che ha stimolato la ricerca di farmaci per le malattie rare”.
In Italia, i dati della resistenza agli antibiotici nei batteri isolati da casi umani sono raccolti dalla sorveglianza Enter-Net Italia coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità, mentre i dati dagli animali sono raccolti dal Centro di referenza per l’antibiotico-resistenza in batteri di origine animale (Crab), presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale di Lazio e Toscana. Dai dati presentati nel report emerge che la resistenza agli antibiotici negli isolati da casi umani di Salmonella è un fenomeno diffuso, anche se con proporzioni variabili tra stato e stato. In Italia questo fenomeno si presenta in modo rilevante, collocando il nostro Paese ai primi posti come frequenze di isolati resistenti. Negli animali la resistenza agli antibiotici varia tra i diversi Paesi e tra le diverse specie animali, presentandosi particolarmente elevata negli isolati di Salmonella da tacchino. Questo rilievo è di particolare importanza considerando che in Italia l’allevamento del tacchino su scala industriale è una quota molto importante della zootecnia. La resistenza in Campylobacter isolati da casi umani è risultata frequente, soprattutto nei confronti di antibiotici quali ampicillina, ciprofloxacina, acido nalidixico e tetracicline, mentre è ancora poco diffusa la resistenza all’eritromicina. Anche in questo caso, l’Italia si colloca con i Paesi che hanno i livelli più elevati di resistenza.
Considerando la situazione negli animali, gli isolati di Campylobacter da specie avicole, suini e bovini hanno evidenziato elevati livelli di resistenza, soprattutto a ciprofloxacina, acido nalidixico e tetracicline.
In generale, i dati presentati risentono ancora di difficoltà di armonizzazione nelle strategie di monitoraggio e nelle metodiche di determinazione della resistenza, rendendo talvolta difficile la lettura della situazione a livello generale. Sono però informazioni molto importanti se lette nel tempo nei vari Stati, dove l’armonizzazione delle informazioni raccolte è maggiore. Resta comunque l’evidenza della diffusione del fenomeno, che richiede attenzione e interventi per le implicazioni di sanità pubblica che presenta. Le “Linee guida per la promozione dell’uso prudente degli antimicrobici negli allevamenti zootecnici per la prevenzione dell’antimicrobico-resistenza e proposte alternative”, elaborate dalla Sezione per la Farmacosorveglianza sui medicinali veterinari del Comitato tecnico per la nutrizione e la sanità animale istituito pressoi il Ministero per la Salute (Decreto ministeriale del 30 marzo 2016), forniscono indicazioni utili per prevenire l’uso inappropriato di antimicrobici che, in medicina veterinaria, rappresenta un rischio concreto per la salute animale, per gli allevatori ed è responsabile sia della riduzione delle produzioni che dell’inefficienza degli allevamenti. Il documento è una guida pratica per le Autorità competenti, i medici veterinari liberi professionisti e gli operatori di settore e riporta indicazioni per la riduzione dell’uso inappropriato di medicinali antimicrobici, per un approccio prudente e conscio per la salute degli animali, degli allevamenti e quindi dei consumatori. La stretta osservanza dei principi contenuti nelle linee guida, inoltre, può massimizzare il numero di animali sani, riducendo al minimo la necessità di ricorrere all’impiego di antimicrobici. Tra i suggerimenti forniti: il non uso degli antibiotici per fini preventivi, il loro utilizzo solo al seguito di accurati accertamenti diagnostici, curare la salute degli animali, adottare programmi vaccinali aziendali per la prevenzione delle malattie.